Nell’ottobre di un anno fa pubblicavamo questa storia. È bello ricordare questi due fratelli che non intendiamo dimenticare.

Nell’ottobre di un anno fa pubblicavamo questa storia.
È bello ricordare questi due fratelli che non intendiamo dimenticare.

LA CONCORRENZA?
NON HA NIENTE DI NATURALE, UN ESEMPIO:

1936, Germania, Hitler al potere, Olimpiadi di Berlino, siamo nell’Olympiastadion, di recente costruzione dopo l’incendio del Reichstag.
Esso poteva contenere oltre centodiecimila spettatori. Maestoso ed immenso, costituiva un’autentica “macchina di propaganda” messa in azione dal regime per ottenere consensi.
Hitler intendeva servirsi delle Olimpiadi per dimostrare la supremazia della razza ariana, di conseguenza l’atleta tedesco doveva corrispondere all’immagine stereotipata: alto, biondo, prestante, carnagione chiara e occhi azzurri.
In questa categoria rientrava perfettamente Carl Ludwig Long, detto Luz, un ventitreenne
studente di legge di Lipsia, nonché atleta della Leipziger SC.
Long aveva già dimostrato in precedenza le sue doti, superando per due volte consecutive nel salto in lungo il record olimpico di 7,73 m.
Una pedina d’oro, quindi, che non poteva mancare nella scacchiera schierata da Hitler per affermare il dominio sportivo germanico.
Molto dovevano i nazisti alla White supremacy, maturata per prima nel mondo nella “democrazia” americana.
La squadra olimpica americana presentava una media di diciotto atleti di colore su 312
partecipanti, una percentuale bassissima. Ancor più bassa tenendo conto che quei diciotto subivano una pesante discriminazione perfino in patria. Erano pochi, ma abituati alle privazioni,
forse per questo motivo ancor più desiderosi di riscattarsi.
Uno di loro si chiamava James Cleveland Owens, ma tutti lo conoscevano come Jesse.
Gli afroamericani, nel loro Paese, erano costretti a sedere nella parte posteriore dell’autobus, dovevano utilizzare gli ascensori di servizio negli alberghi: essere confinati ai margini era la loro
condanna.
Lo sapeva bene Jesse, figlio di un povero agricoltore dell’Alabama, che a otto anni lavorava già come inserviente per meritarsi un posto un po’ più accettabile in quel mondo deciso ad escluderlo.
A scuola l’insegnante non riusciva a comprendere il suo slang, così, quando lui disse: «Mi chiamo James», comprese Jesse. Quel nome, nato da un’incomprensione, divenne la sua nuova identità, simboleggiava meglio di ogni metafora l’adattamento forzato a cui era stato costretto per
sopravvivere fin dalla più tenera età.
Come detto siamo alle Olimpiadi 1936, gara di qualificazione del salto in lungo.
Su Jesse Owens dopo due nulli incombeva lo spettro dell’eliminazione. Jesse era dotato di grande velocità, ma il suo stile rivelava imperfezioni, soprattutto se confrontato con l’impeccabile hang style (sospensione) dell’idolo di casa Luz Long.
Per Owens sembrava ormai preannunciarsi
l’inevitabile sconfitta, senza contare che ormai su di lui pesava duramente la fatica degli sforzi precedenti. Rimaneva un’unica possibilità e la giuria già si apprestava a dichiararlo fuori gioco senza troppi ripensamenti.
Jesse si trovava di fronte all’ultimo salto valido per accedere alla finale, quando qualcuno si avvicinò alle sue spalle.
Era Luz, l’atleta tedesco di cui tutti attendevano la vittoria, che cercava di
esprimersi con quel poco di inglese imparato a scuola.
Aveva riconosciuto le sue potenzialità meravigliosamente espresse nelle gare precedenti. «Uno come te dovrebbe essere in grado di qualificarsi ad occhi chiusi», disse, poi gli consigliò il punto di stacco ideale per effettuare un salto valido indicandolo con un fazzoletto bianco posato accanto alla pedana.
Long accompagnò il gesto con un’occhiata di intesa che non si aspettava di essere delusa, e la conferma non tardò. Jesse non
solo si qualificò per la finale, ma superò lo stesso Luz saltando ben 8.60 m contro i 7.87 del tedesco.
Vinse così il suo secondo titolo. Fu uno scacco matto per Hitler che riponeva ogni
speranza in Long per un trionfo nell’atletica leggera, disciplina nella quale la sua fucina di atleti aveva dimostrato una certa carenza. Di certo, il Führer non poteva sapere che era stata proprio la sua “scommessa vincente” a tradirlo fraternizzando con il rivale.
Si vociferò a lungo sulla reazione di Hitler al fallimento, gli attribuirono i comportamenti più disparati come l’essersi rifiutato di stringere la mano all’afroamericano. Jesse smentì le malelingue affermando di essere stato salutato, sebbene a distanza, dal Führer.
Ben diverso si dimostrò invece il comportamento del presidente americano Franklin Delano Roosvelt che, troppo occupato a raccogliere voti in previsione delle elezioni imminenti, non si degnò neppure di accogliere il vincitore olimpico alla Casa Bianca come prevedeva la tradizione.
Jesse aveva battuto ogni record vincendo il maggior numero di gare in un’Olimpiade; oltre ai successi nei centometri e nel salto in lungo aveva infatti conquistato il primo posto perfino nei duecento metri e, il 9 agosto, nella staffetta 4×100. La sua ascesa non conobbe ostacoli, neppure Long fu in grado di eguagliarlo.
Dopo l’argento vinto nel lungo, il tedesco fu eliminato nella semifinale del salto triplo ottenendo la decima posizione.
Luz in una delle sue lettere scrisse: «Tutte le
nazioni del mondo hanno i propri eroi, i semiti così come gli ariani. E ognuna di loro dovrebbe abbandonare l’arroganza di sentirsi una razza superiore».
E Jesse, l’eroe mascherato di quell’Olimpiade, non diede mai molta importanza alle sue medaglie che neppure in patria gli vennero riconosciute con il rispetto che meritavano.
Tornato negli Stati Uniti dovette adattarsi a quel mondo ostile facendo i lavori più disparati, fra cui anche l’inserviente in
una pompa di benzina. Per guadagnarsi da vivere gareggiava contro cavalli, cani e motociclette durante eventi a pagamento. Dovette attendere anni prima che venissero riconosciuti i suoi successi sportivi e, anche quando venne acclamato all’unanimità, gli rimase un’unica certezza:
«Si potrebbero fondere tutte le medaglie che ho vinto, ma non si potrebbe mai riprodurre l’amicizia a 24 carati che nacque sulla pedana di Berlino».
Il legame fra l’atleta tedesco Luz Long e l’avversario afroamericano Jesse Owens trova la sua più valida conferma in quella lettera, ultima di una fitta corrispondenza, spedita dal fronte di guerra:
Luz scrisse a Jesse durante la Seconda guerra mondiale, durante la quale sarebbe morto nella ritirata dalla Sicilia:
«Dopo la guerra, va’ in Germania, ritrova mio figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa terra. Tuo fratello, Luz».

“Ye are many – they are few”
Voi, noi siamo molti, essi son pochi
Scuotiamoci di dosso le catene come rugiada caduta su di noi nel sonno
Sorgiamo come leoni dopo il sopore in numero invincibile
(Shelley)

23 ottobre 2020
FrankTreDita
Controcultura: Spazio aperto Be.Brecht – Trento

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