BUONI CON I BUONI, CONTRO I CATTIVI, GLI APPROFITTATORI

La storia di Maria ci riporta in una terra apparentemente astorica, in cui dovrebbe ancora vigere la legge degli antichi dèi, che impone a tutti la bontà, ed in cui irrompe d’improvviso il capitalismo, un capitalismo all’americana.
Soltanto l’ “anima buona”, la misera ed umanissima prostituta Maria offre ospitalità gratuita ai tre dèi scesi sulla terra, dalla loro nube rosea, per cercare se vi è ancora un giusto fra gli uomini. Gli dèi non hanno potere sulle “leggi economiche”, pretendono però che gli uomini siano buoni e credono che le sofferenze li purifichino.
Il problema torturante per Maria sarà trovare la maniera di continuare ad essere buona con tutti, come essa non può non essere, e tuttavia non morire di fame. La sua amara conclusione sarà: soltanto chi è malvagio non muore di fame.
Gli dei, violando la loro stessa legge che li vieta di ingerirsi in questioni economiche, avendo appreso che Maria non ha i soldi per pagare l’affitto, la ricompensano per l’ospitalità offerta gratuitamente e, dopo molte esitazioni, le danno del denaro.
Con quel denaro Maria apre una tabaccheria. Ma ecco che subito, non essendo capace di negare il suo aiuto a nessuno che lo richieda, ne abbia realmente o non ne abbia affatto bisogno, è sfruttata indegnamente, è addirittura spogliata da parenti rapaci e da sedicenti creditori.
A rimettere le cose in sesto, interviene d’improvviso il misterioso cugino Carlo, da nessuno conosciuto, che diventa subito amico e complice del poliziotto e fonda poi una grande fabbrica di tabacchi, in cui sfrutta inumanamente i disoccupati.
Carlo è l’io malvagio di Maria, è lei stessa che si traveste nei panni del cugino malvagio.
L’anima buona ha imparato che per procurarsi una minestra bisogna aver la durezza d’un fondatore d’imperi e che per aiutare un misero bisogna calpestarne dodici; essa pensa però di potersi avvalere solo saltuariamente dell’aiuto del cugino che è “di passaggio”, si ferma solo per breve tempo e ritorna, a quanto sembra, solo se chiamato da lei.
L’errore di Maria consiste nel credere che si possa essere capitalisti solo saltuariamente e per breve tempo, come l’errore degli dèi fu quello di aver creduto di poter infrangere una sola volta la legge che li esclude dalla realtà economica della vita.
Maria s’innamora poi dell’aviatore Gianni, lui ne approfitta per sfruttarla. Carlo lo assume nella fabbrica come sorvegliante e diventa il più feroce degli aguzzini: efficacissima è la canzone dei sette elefanti che mostra col suo stesso ritmo frenetico come gli operai devono accelerare il ritmo del loro lavoro, se non vogliono essere licenziati e gettati sul lastrico, anche per paura che la fabbrica sia chiusa per fallimento, perché non regge la concorrenza.
Maria, che sta per diventare madre, spera di essere abbastanza forte per rendere buono l’aviatore; ma si vede poi obbligata dalle conseguenze della sua incorreggibile bontà a chiamare “per l’ultima volta” il malvagio cugino. Il cugino resta però questa volta a lungo; non sa dire quando Maria ritornerà ed è accusato dalla voce pubblica di averla assassinata.
Si tiene il processo.
Il vecchio portatore d’acqua accusa Carlo: “Gli dèi hanno dato a Maria il suo negozio, perché fosse una piccola fonte di bene. Lei avrebbe sempre voluto far del bene e tu sei sempre venuto a guastare tutto”; al che Carlo grida furibondo: “Perché la fonte si sarebbe subito inaridita, pazzo che non sei altro!”
Il dilemma della compassione e dello sfruttamento non è con ciò risolto.
Durante il processo Carlo rivela di essere Maria.
Al processo assistono anche gli dèi ed essi, non Maria, sono i veri condannati. Alla disperata anima buona, che chiede di poter chiamare il cugino una volta alla settimana, concedono di chiamarlo una volta al mese; e senza rispondere alle sue altre, ben più gravi domande, spariscono benedicendola; la nube rosea li riporterà nell’alto dei cieli, nel loro “Nulla”.

Questa è una parabola, una didattica di lotta, dell’inconciliabilità tra le condizioni di vita dei lavoratori e gli interessi del capitalismo; ma in quanto gli sfruttati sono per loro intima natura buoni, questo dramma didattico è anche un dramma dolorosamente lirico dell’impossibilità di essere gentili in mezzo alle condizioni della vita reale.
La gentilezza è negata appieno dalle condizioni, eppure è inserita in esse come desiderio irrefrenabile di cambiarle e sia pure soltanto come desiderio sognato o proiettato in un avvenire utopistico.

Alla fine dell’opera-parabola uno degli attori si presenta sulla scena per scusarsi. Gli attori sono “sbigottiti” e non solo per burla: sono incapaci di trovare una soluzione.
“Ha da essere un uomo diverso? O un mondo diverso? O altri dèi? O nessun dio?”
Il rispettabile pubblico è invitato a cercare fin da subito per proprio conto la conclusione, affinché il giusto non sia sempre battuto, perché un finale migliore è indispensabile, ci deve pur essere!

Così diciamo noi ai nostri lettori.

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